“Il «sempre» è anche un «per sempre» – non c’è più un ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo. Non ritorno alla vita privata, a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze eccetera. Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso. Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di san Pietro. San Benedetto, il cui nome porto da Papa, mi sarà di grande esempio in questo. Egli ci ha mostrato la via per una vita, che, attiva o passiva, appartiene totalmente all’opera di Dio”. Queste sono le parole centrali dell’ultima udienza generale di Benedetto XVI il 27 febbraio prima dell’inizio della Sede vacante.
Con queste parole il Papa ha voluto ulteriormente precisare il senso della sua rinuncia al ministero petrino con quel riferimento alla Croce e alla dimensione del martirio del primato romano, già riscontrate in un suo saggio sull’ecclesiologia del Vaticano II del 1986. A conferma della tesi, vi riportava l’opuscolo, in forma di dialogo, del cardinale Reginald Pole, già citato, De summo Pontifice in terris Vicario, e, alla domanda dell’interlocutore, l’autore rispondeva che la sede di Pietro si riconosce senza fatica se prima si capisce che è quella dove si è seduto Pietro a Roma quando vi piantò la croce di Cristo.
“Da essa non è mai sceso durante tutto il suo pontificato, ma, innalzato con Cristo secondo il suo spirito, le sue mani e i suoi piedi erano a tal punto fissati che non volle andare dove lo portava la sua volontà, ma rimanere laddove lo manteneva la volontà di Dio: là stavano ormai inchiodati il suo sentimento e il suo pensiero”. Parole di un cardinale del Rinascimento in piena controversia luterana, parole quanto mai attuali nel momento storico attuale. E lo stesso Benedetto XVI ne ha tenuto conto, se ha sentito il bisogno di precisare di restare “in modo nuovo presso il Signore Crocifisso”.
Tuttavia, anche dalle parole del Papa, emerge un dato che è già materia di controversie in ambito teologico, la possibilità di separare il ministero dal carisma di chi lo esercita. Non a caso il Papa ha fatto riferimento “all’esercizio attivo del ministero petrino”, ovvero all’ufficio ecclesiastico da Lui assunto al momento dell’accettazione dell’elezione. E qui ritorna tutta la peculiarità della concezione dell’ufficio ecclesiastico, che, per il can. 145 del Codice di diritto canonico, è “qualsiasi incarico (munus), costituito stabilmente per disposizione divina o ecclesiastica, da esercitarsi per un fine spirituale”. Essendo legato l’ufficio alla potestà di giurisdizione nella Chiesa, a sua volta, organicamente correlata alla potestà d’ordine, l’ufficio stesso è connotato di una dimensione soggettiva che non può prescindere dalla persona di chi lo esercita. Soprattutto al vertice della gerarchia, alla sommità della Sede apostolica, con il Papa da cui trae legittimazione lo stesso Collegio dei vescovi.
La dimostrazione è la stessa Sede vacante che non determina un governo interinale della Chiesa da parte del Collegio dei cardinali, ma stabilisce “un divario che non è puramente quantitativo perché consegue al carattere proprio ed esclusivo del titolare”, superabile solo con l’elezione del nuovo pontefice, secondo quanto scrive Carlo Cardia. Pacifico tutto ciò in caso di morte del Papa, ma nell’ipotesi attuale di rinuncia al “ministero attivo”, resta tutta nuova la sfida teologica e canonistica di un Papa, pur emerito, che è stato, definitivamente, “consolidato” in Cristo mediante la sua assunzione al pontificato.
Lo scrive del resto Leone Magno, il papa che ha tradotto la concezione del primato romano al concilio di Calcedonia, laddove nel sermone III proprio per la ricorrenza della sua elezione, chiosando il dialogo tra Cristo e Pietro a Cesarea di Filippo nel contesto dell’attribuzione del primato con la professione di fede dell’apostolo riportata da Matteo, fa dire a Gesù: “Pur essendo Io pietra infallibile, tuttavia anche tu lo sei, tu che sei stato consolidato (solidaris) dal mio carisma (virtute), al punto che ciò che Mi è proprio per potestà ti è comune con Me per partecipazione”. In effetti, a Cesarea di Filippo Simone Bar Iona, a seguito della sua professione di fede, ispirata dallo spirito e non dal sangue o dalla carne, è chiamato da Gesù “Pietro”, nell’assonanza con pietra, con un cambio di nome che è conseguente all’attribuzione della potestà di sciogliere e legare nella definitiva traslatio personae.
Solo un’altra volta sarà chiamato da Gesù col nome di Simone, sul lago di Tiberiade, dopo la resurrezione, quando per tre volte gli sarà chiesto di riconfermare il suo amore per il Signore. La spiegazione si può cogliere nella debolezza umana di Pietro che aveva per tre volte rinnegato Gesù nella sua passione. Eppure è significativo che l’evangelista faccia riferimento sempre all’apostolo col nome Pietro, la pietra consolidata su cui si svilupperà tutta la Chiesa, mediante quel carisma trasmesso da Gesù a Pietro e da questo ai suoi successori con carattere singolare e permanente.
Nicola Russomando
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