ARCHIVIOLa Cassazione smentisce i pm: sbagliato arrestare Mandara, il re delle mozzarelle

admin16/02/2013
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Mandara Giuseppe arresto

Giuseppe Mandara (nella foto il giorno dell’arresto) non doveva essere arrestato e la sua azienda non doveva essere sequestrata. Così ha deciso la Corte di cassazione, ponendo il sigillo su una vicenda che aveva fatto il giro del mondo. Letteralmente. Sì, perché Peppino Mandara è uno dei maggiori produttori di mozzarella di bufala, oltre che di altri prodotti caseari, molto noto sui mercati internazionali. 

 

Quando la Dda lo arrestò contestandogli l’associazione camorristica e la contraffazione dei prodotti aziendali, la notizia si diffuse sui principali media del mondo: dall’Indipendent al New York Times, dai siti giapponesi a quelli europei, per non dire di quelli italiani. Tutti con titolazioni analoghe: «Le mozzarelle della camorra», «L’Armani della mozzarella arrestato per mafia», «Colpo al sistema dell’agri-camorra» e così via. Invece, stando a quanto i vari livelli della magistratura hanno accertato, quell’iniziativa non poteva esser presa. Facile a dirsi, difficilissimo da digerire, specie quando ne sei diretto protagonista. Ma proviamo a ricostruire.

Il 17 luglio 2012 la Dia, su ordine della Dda di Napoli, ammanetta Mandara e tre suoi collaboratori. Contestualmente viene disposto il sequestro dell’azienda. Le accuse sono da far tremare i polsi: associazione a delinquere di stampo mafioso e vari reati inerenti la sofisticazione alimentare con relativo pericolo per la salute pubblica. Cioè la “I.L.C. Mandara spa” oltre al resto, taroccava il latte per le mozzarelle e immetteva sul mercato perfino falsi provoloni del monaco. 

Per la procura Mandara aveva creato il suo impero grazie al danaro prestatogli nel 1983 (sic!) da un camorrista dell’area di Caserta, Augusto La Torre. Settecento milioni di lire per salvare Mandara dal crac e farlo ripartire. La qual cosa, nelle previsioni di un pm, significa riciclaggio di danaro. Poche ore dopo il clamoroso blitz (“Operazione Bufalo”) conferenza stampa, flash, videocamere, microfoni e taccuini. Dopodiché, grazie al lavoro dei legali (Mandara è difeso dall’avvocato Vittorio Guadalupi) il Riesame scarcera l’imprenditore e ordina il dissequestro della società.

Ma come si era giunti fin lì? Semplice, grazie alle dichiarazioni di un “pentito” che, a distanza di  30 anni, ha determinato la riapertura di un fascicolo esaminato già quattro volte. La storia del prestito, cioè, era stata sviscerata dalla magistratura tra il 1980 e il 1985, chiudendo la questione. Definitivamente? No, perché nel 2011 un pentito si sveglia e aziona la macchina. Di qui le manette e tutto il resto. Il Riesame accoglie la tesi difensiva ma la procura non ci sta e rilancia proponendo ricorso per cassazione: l’altra sera l’epilogo, in cui la Suprema Corte rigetta il ricorso definendo, tra l’altro, «intrinsecamente inattendibile il pentito». Da sottolineare che la stessa procura generale della Cassazione si era espressa contro la tesi del pm di Napoli che insisteva per rispedirlo in galera. Ora ci sono due vie: o la procura chiede il rinvio a giudizio oppure chiede l’archiviazione, cosa abbastanza difficile tenuto conto dell’esposizione mediatica.
Dice Mandara a Libero: «Ringrazio il vostro giornale perché siete stati gli unici ad interessarsi dopo la sentenza della Cassazione». «Qualcuno ha scritto “Mandara salvato dalla Cassazione”, non siamo d’accordo, per noi è il sigillo dell’innocenza di Peppino Mandara» aggiunge la figlia Silvia.
Cosa è successo dopo l’arresto con banche, fornitori e clienti? «Quel che potete immaginare: grazie a Dio la grande distribuzione ha verificato la qualità dei nostri prodotti e non ci ha esclusi dal circuito. Abbiamo calcolato, sinora, un danno di oltre 3,5 milioni di euro (più del 10% del fatturato, ndr). Per non dire dell’immagine, uscita devastata da questa storia».

Peppe Rinaldi (dal quotidiano “Libero” del 16 febbraio 2013)

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