C’è una falla nel sistema di controllo della qualità. E’ un classico. Se applichi alla politica, terreno principe delle imperfezioni umane, lo stesso criterio che applicheresti ad un processo industriale, le conseguenze possono farsi fastidiose. Al limite dell’imbarazzante.
Prendiamo il «quality control» calato sulla formazione delle liste per le Politiche di domenica e lunedì prossimi. Mario Monti dice di averle passate al setaccio per evitarsi noie con candidati discutibili e/o chiacchierati: e, per l’ardito cimento, ha nuovamente chiamato il noto tagliatore di teste Enrico Bondi, l’uomo della spending review, di Parmalat e di tante altre cose. Insieme, o forse no, hanno inserito i nominativi di chi intendeva «salire in politica» per generosa scelta civica, nel cervellone virtuale per poi appiccicarvi sopra un improbabile bollino. Criteri base erano: assenza di carichi penali pendenti, anni di permanenza in parlamento ed eventuali conflitti di interesse.
Molto sobriamente, va rilevato che qualcosa dev’essere sfuggita al meccanismo di filtraggio se si considera, ad esempio, che il vice capolista alla Camera nel collegio Campania 2 (quindi in posizione tecnicamente eleggibile, quorum permettendo) qualche problemino penale ce l’ha in corso. Parliamo dell’imprenditore avellinese Angelo Antonio D’Agostino (nella foto, tratta da un profilo pubblico su Face Book, l’imprenditore stringe la mano al premier Monti) con interessi diffusi nelle costruzioni e nell’editoria (è editore di Prima Tivvù). E’ salito anche lui, solo che Bondi parrebbe non essersi accorto che dovrà presentarsi in un’aula di giustizia del tribunale di Ariano Irpino il prossimo 2 maggio, per rispondere di danneggiamento di beni artistici, architettonici e culturali.
Con la propria azienda (“D’Agostino Costruzioni Generali srl”), avrebbe sbancato un terreno operando in un’area soggetta alla tutela dei Beni culturali senza le prescritte autorizzazioni. Recita testualmente il decreto di fissazione del dibattimento: «… perché senza l’autorizzazione di cui agli artt. 95 D.L. 163/06 e 21 c.4 D.L. 52/04, procedeva a lavori di sbancamento per la realizzazione di un Auto Terminal a Grottaminarda (Av) operando su beni culturali, in particolare su fondi di interesse storico, artistico ed architettonico, determinando danneggiamenti al paleo-suolo ricco di frammenti ceramici e tagliando la stratigrafia originaria». Insomma, non proprio un banale abuso edilizio ma qualcosa in più e, in linea di principio, più grave specie in un Paese che dice di puntare sulle proprie ricchezze storico-culturali. E neppure un tradizionale avviso di garanzia che, come si dice, non si nega più a nessuno: alla coppia Monti-Bondi è sfuggito addirittura un processo istruito e pronto alla discussione, avviato nel 2009 e giunto alla fase centrale.
Ora, a meno che non sia stata prevista una deroga, l’alternativa è unica: o D’Agostino ha sottaciuto la circostanza oppure le verifiche sono state fatte al tribunale di Avellino, mentre il guaio il candidato ce l’ha ad Ariano Irpino. Cambia poco a questo punto.
D’Agostino è di Montefalcione, cuore del feudo dell’ex vice presidente del Csm ed ex ministro dell’Interno Nicola Mancino: i due, raccontano, sono particolarmente legati, anzi D’Agostino viene descritto come uomo di strettissima osservanza «manciniana» (sono stati per anni vicini di casa al “Parco Cappuccini” di Avellino). Mancino ne sponsorizzò la candidatura a sindaco nel loro paese, in quota Pd, appoggiandone la corsa, seppur vanamente perché fu sconfitto da un avversario «civico» (manco a dirlo).
D’Agostino non è la prima falla del sistema Bondi: prima di lui ci sono stati Alessio De Giorgi, animatore notturno di feste a sfondo gay, e Francesco Regine, sindaco di Forio d’Ischia, ritiratosi per una storia di abusi edilizi coperti in favore di un assessore. D’Agostino, a quanto pare, l’avrebbe sfangata.
Peppe Rinaldi (dal quotidiano “Libero” del 20 febbraio 2013)