Il nunzio apostolico per l’Italia, Adriano Bernardini, ha trasmesso il 19 gennaio all’arcivescovo di Amalfi – Cava, Orazio Soricelli, e all’abate amministratore della SS. Trinità di Cava dei Tirreni, Giordano Rota, il decreto, redatto in un latino non sempre limpido, con data 20 agosto, della Congregazione per i Vescovi con cui si mutano i confini delle rispettive giurisdizioni ecclesiastiche.
In pratica, alla Badia vengono sottratte a favore della diocesi di Amalfi – Cava le tre parrocchie di S. Maria Maggiore al Corpo di Cava, di S. Cesareo nell’omonima frazione cavese e dei SS. Pietro e Paolo in Dragonea del comune di Vietri, con le “chiese, gli oratori, le case, le pie fondazioni e qualunque altro bene e diritto afferente alle stesse parrocchie”.
“Il territorio dell’abbazia territoriale della SS. Trinità di Cava di seguito è costituito dalla chiesa cattedrale e dal cenobio ad essa annesso. All’abbazia territoriale competeranno solo i membri della stessa casa monastica, monaci, novizi e postulanti”. Questo il dispositivo della decisione di Benedetto XVI, “sentito l’abate presidente della Congregazione cassinese (lo stesso Rota ndr.), gli altri a cui interessa e con il voto favorevole della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata”.
La Badia di Cava, in effetti, è la quarta abbazia territoriale a subire un ridimensionamento della sua configurazione giuridica dopo la soppressione dell’abbazia di S. Paolo fuori le Mura in Roma nel 2005 con la contestuale erezione della sua basilica a papale e la nomina del relativo cardinale arciprete, e dopo l’eliminazione delle diocesi abbaziali di Subiaco e Montevergine, la cui territorialità resta limitata, come a Cava, intra monasterii claustra.
Le ragioni del provvedimento sono del resto esplicitate nella pars demonstrativa del decreto che, dopo l’esaltazione del cenobio alferiano ob christianae iuventutis institutionem more maiorum diu exstructa ac mirabilis (quasi che la Badia sia stata solo famosa per le sue scuole laicali secondo i dettami del mos maiorum classico), le individua nella necessità di “conservare questa venerabile istituzione monastica allo spirito suo proprio, perché i monaci possano integralmente dedicarsi ad accrescere l’intima unione con Dio e ad assolvere la lode divina, eliminata ogni altra preoccupazione”.
Indubbiamente un territorio diocesano, ancorché vestigio di una tradizione di esenzioni feudali ed episcopali, può rappresentare un peso per l’opus Dei dei monaci e quello della Badia di Cava non è neppure quello originario che si estendeva fino al 1972 a Roccapiemonte nel salernitano, a Castellabate e Casalvelino nel Cilento e a Tramutola nel potentino. Poi, a seguito del riordino delle diocesi voluto dal Vaticano II, che prevedeva giurisdizioni territoriali contigue, dopo una vacatio di sette anni e non senza il personale prestigio dell’abate dom Michele Marra, si smembrarono dalla diocesi di Cava per la Badia quelle parrocchie che dopo un trentennio vi fanno nuovamente ritorno. In quell’occasione Giovanni Paolo II ebbe a difendere la varietà di espressione della Chiesa, pur consapevole che il suo predecessore Paolo VI aveva vietato, in quanto deroga all’ordinaria giurisdizione episcopale, la costituzione per l’avvenire di abbazie territoriali “se non per motivi specialissimi”.
Oggi l’atteggiamento sembra di nuovo mutato e, senza voler richiamare la memoria di rivincite episcopaliste ben attestate nella storia, si assiste quasi alla riconduzione ad un modello olistico che mal si addice alle complessità dei processi storici. Soprattutto ecclesiastici. Ed è appena il caso di ricordare quanta parte della fisionomia della Chiesa cattolica sia il frutto delle rivoluzioni dei monaci poi fatte proprie a Roma da papati riformatori che vi si alleavano per combattere episcopati infeudati agl’imperatori. Oggi che la lotta per le investiture è solo una pagina della storia medievale, resta tutta l’ammirazione per quei monasteri che hanno dato forma alle stesse istituzioni ecclesiastiche. Come la stessa Badia di Cava che ha attraversato i suoi mille anni di vita senza soluzioni di continuità e nelle più varie temperie politiche ed ecclesiali.
Benedetto XVI, benedettino innanzitutto per ispirazione teologica, assegna alla Badia alferiana il compito ben arduo di perfezionare “l’intima unione con Dio” non solo per i suoi monaci, ma a testimonianza per tutti, ecclesiastici non esclusi, dell’unum necessarium per la Chiesa, che è la preghiera liturgica. Da questo i monaci devono ripartire, secondo anche la lettera del decreto odierno, per ascendere ai culmina virtutum della Regola, quacumque alia sollicitudine ablata.
Quanto ai territori e alle giurisdizioni, già una lapide del XVI secolo, murata nella cordonata che dalla Badia porta al Corpo di Cava, recita che “nel mondo sublunare è legge, non pena perire”.
Al di là dell’enfasi, l’allusione è alla storicità del mutamento, ma contiene anche l’implicito riferimento a ciò che non muta perché eterno. E le abbazie, territoriali o meno, ne sono un eloquente documento.
Nicola Russomando
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