Un corposo dossier, fotografico e documentale, viaggia da tempo ma sembra non interessi a nessuno: non alla procura della repubblica, ai vertici dell’Asl, al comando della Guardia di finanza, a quello del Nas dei carabinieri e via elencando i vari organi di controllo. Tutti sarebbero a conoscenza di quanto denunciato: ma le ragioni per le quali non sembra si sia proceduto consequenzialmente potrebbero essere le più disparate, dipendendo molto dalla natura del destinatario.
Ma questo lo vedremo dopo. Stiamo parlando, nuovamente, della vexata quaestio del centro medico-psicopedagogico “Ises” di Eboli (Salerno), finito al centro di una polemica politico-mediatica (e, in subordine, giudiziaria) per la vastità di implicazioni che ricomprende.
Veloce sintesi per chi ignora i termini del problema. Il centro è uno dei tanti sparsi sul territorio che effettua prestazioni in favore di disabili in regime di convenzione col Ssn per il tramite della Regione; da questa, via Asl, percepisce poco meno di quattro milioni di euro annui a copertura delle somme anticipate dalla società di gestione; nel corso del tempo si è scoperto che manca una certificazione fondamentale, cioè l’agibilità, che è un po’ come dire che un cittadino non è iscritto all’anagrafe perché non è mai nato; la certificazione non è stata rilasciata (oltre che per una vicenda ereditaria connessa alla proprietà dello stabile in relazione alla pretesa del cambio di destinazione d’uso) perché si tratta di un condominio per civili abitazioni, tant’è che ai piani superiori del palazzo vi abitano normalissime famiglie; coinvolto nella vicenda è, in particolare, l’attuale sindaco del Pd Martino Melchionda, per anni amministratore della struttura, suo legale di riferimento, legatissimo anche per ragioni politico-familiari alla storica presidenza del centro: il primo cittadino di Eboli è pure finito sotto processo per omissione d’atti d’ufficio per non aver provveduto a fare quel che la legge impone, vale a dire la chiusura immediata della “clinica” per carenza/assenza di certificazione obbligatoria, ciò che normalmente fa (o dovrebbe fare) dinanzi a mille casi analoghi; Melchionda dice di essersi assunto la responsabilità per non mandare in strada decine di lavoratori (cosa che succederà in ogni caso se resta tutto uguale) e, di recente, sembrerebbe pure in pieno vigore “creativo” parlando di concessione di «agibilità temporanea»: una figura tecnico-giuridica che non esiste, in quanto l’agibilità o c’è oppure non c’è, il resto non conta, a meno che il sindaco non abbia individuato un percorso prescrittivo per sanare quello che è a tutti gli effetti un abuso edilizio; per tutto ciò c’è necessità che gli uffici preposti (dall’Asl all’Utc del comune) siano stati espropriati della funzione e che la decisione sia diventata unicamente politica, con tutte le responsabilità che ne deriverebbero in capo a chi l’atto eventuale abbia firmato: il che, nel caso di Melchionda, è altamente improbabile seppur non impossibile; la vicenda, ancora, è diventata di dominio pubblico, travalicando i confini della comunicazione locale per approdare sui media nazionali vista l’abnormità di una struttura abusiva che gode di rimesse pubbliche; le ricadute locali del dibattito sono state tipicamente miserabili, legate ad una dietrologia d’accatto che individuerebbe interessi di settore pronti ad armare la mano -e la penna- di chi scrive (ma chi scrive?) per sostituirsi nel gioco del potere: roba triste, spesso scarsamente alfabetizzata, almeno quanto la perdurante indifferenza dei livelli politici ed istituzionali verso tutto ciò che non sia la turlupinatura delle primarie di qua e delle candidature di là.
Fatto questo lungo excursus, arriviamo al nocciolo della questione: le foto che vedete ci sono pervenute nei giorni scorsi, raccontano una storia che di colpo fa fare un salto di qualità all’argomento. Non si tratta più di discutere del merito specifico dell’agibilità o meno dell’Ises, al quale auguriamo sinceramente di risolvere i problemi e in fretta. No, qui è in discussione il regime dei controlli.
Le fotografie coprono un arco temporale ben individuato, le ultime risalgono a qualche giorno addietro: non abbiamo motivo di pensare che si tratti di un taroccamento o di un foto montaggio.
Ne abbiamo selezionato solo alcune per farci assieme ai nostri cinque lettori qualche domanda traendo spunto dal calendario delle ispezioni, in genere puntigliosissime, spesso fin troppo: i Vigili del Fuoco, ad esempio, come hanno fatto a dare l’Ok se manca addirittura una scala anticendio e il piano di evacuazione aziendale individua in una stanzetta di pochi metri quadri ai piani superiori il luogo di ritrovo di degenti e personale? Il Nas dei carabinieri, che non poche volte ci risulta esser stato sul posto, non si è accorto delle condizioni strutturali -emergenti dalle foto- in termini di igiene degli ambienti, infiltrazioni d’acqua, fili elettrici in libertà, inferriate alle finestre, porte e balconi consunti, vasche non più a norma, pali e sollevatori arrugginiti, etc? Le visite dell’Asl non hanno evidenziato che l’arredamento, i letti, lo spazio per singolo degente, gli igienici dei bagni, la lavanderia al piano alto -dove, raccontano, ci piova addirittura dentro- le attrezzature per disabili hanno un apparente (stando alle fotografie) problema con la normativa? Il settore della Riabilitazione dell’Asl e quello del Distretto sanitario locale (il 108) come mai ogni volta rilasciano parere favorevole -al di là della stessa agibilità- alle autorizzazioni senza le quali i fondi non potrebbero essere erogati? I sindacati, sempre pronti ad insegnarci come si sta al mondo e come si deve rispettare la legge, che hanno detto in questi anni?
Sono solo alcune delle domande che ci siamo fatti quando ci è stato recapitato il dossier. Sulla politica locale, tranne rarissime eccezioni, non ci siamo fatti nessuna domanda: era del tutto inutile. Non sappiamo se queste immagini possano condensare tutta la verità su una storia che, al di là delle benemerenze eventuali di chi anni fa svolgeva questo lavoro, sembra essersi incamminata verso la peggiore delle strade: sappiamo solo che si tratta di immagini che parlano una lingua di non difficile comprensione. Lietissimi, se del caso, di ritornare sui propri passi in presenza di tesi contrarie.
Tutti noi sborsiamo per ogni paziente ricoverato nell’Ises circa 190 (CENTONOVANTA) euro al giorno: in pratica quanto un hotel a cinque stelle. Ognuno dei degenti presi in cura, pertanto, dovrebbe vivere da semi-pascià, in un ambiente «svizzero» e senza una virgola fuori posto.
Può darsi che sia così e non ce ne rendiamo conto. Ma, riguardando per la centesima volta le foto, c’è qualcuno disposto a giurare che si tratti proprio di un hotel a cinque stelle?
Peppe Rinaldi
© RIPRODUZIONE RISERVATA