ARCHIVIOEvento storico: le congregazioni benedettine riunite dopo 145 anni

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SUBLACENSI3

All’ombra del millenario della Badia di Cava, conclusosi ufficialmente l’8 gennaio 2012, si è consumato un altro evento che non è azzardato definire “storico”: la riunificazione delle due congregazioni benedettine italiane, la cassinese e la sublacense.

 

Le due famiglie monastiche che prendono il nome l’una dall’arcicenobio di Montecassino, l’altra dal protocenobio di Subiaco, entrambi fondati da S. Benedetto in quel VI secolo che vide il crollo definitivo dei resti dell’impero romano d’Occidente, si erano separate nel 1867 ad opera dell’abate Casaretto, il quale aveva dato così inizio all’esperienza della Congregazione cassinese della primitiva osservanza, dal 1880, con l’approvazione definitiva, ufficialmente ribattezzata “sublacense”. Le trattative per la riunificazione sono iniziate nel 2010 con il capitolo generale della Congregazione cassinese e si sono concluse, con l’approvazione all’unanimità da parte del capitolo generale sublacense, il 14 settembre scorso. Ora si attende per l’ufficializzazione solo il placet definitivo del Papa.

Artefici di tutta l’operazione i due abati presidenti, il giovane cassinese dom Giordano Rota, nominato altresì amministratore apostolico della Badia di Cava in pieno svolgimento delle celebrazioni millenarie, e il sublacense dom Bruno Marin. Più che di riunificazione si potrebbe anche parlare di “incorporazione” dei cassinesi tra i sublacensi, se non altro per la tirannia dei numeri. I monasteri che si richiamano a Montecassino sono solo 11 con 98 monaci, mentre le case sublacensi sono 64 per 1203 monaci secondo i dati statistici dell’annuario pontificio 2008. Inoltre, mentre la congregazione cassinese ha mantenuto una dimensione italiana, quella sublacense è articolata in varie provincie di diverse nazionalità, con quella italiana che viene ad arricchirsi del contributo cassinese. E’ il caso di evidenziare che, oltre Montecassino e la Badia di Cava, abbazie territoriali non soggette a giurisdizioni di vescovi, tra i sublacensi passano le abbazie di S. Paolo fuori le Mura in Roma, di Cesena, di Pontida e di Palermo, e i priorati di Farfa, Assisi, Modena e Perugia. E se lo strumento delle congregazioni come raggruppamento di monasteri risale all’esperienza del feudalesimo medioevale e ha avuto in Cluny la sua espressione più nota, tuttavia conosce un’ulteriore reviviscenza alle soglie dell’età moderna per l’esigenza di reagire alla decadenza nella disciplina monastica determinata in primo luogo dall’istituto della commenda, che trasformava le abbazie in fonti di rendita per i commendatari, in genere alti ecclesiastici senza rapporti organici con il monastero da loro governato mediante procuratori.

Capofila di questa rinascita, la Congregazione di Santa Giustina di Padova, approvata da Gregorio XII nel 1408 ancora in pieno grande scisma d’Occidente, poi detta, per l’appunto cassinese per l’ascrizione a questa dell’arcicenobio, con la finalità di recuperare la “primitiva osservanza” nel ripristino integrale della Regola di S. Benedetto e con la nomina di abati in seno alla comunità monastica. Funzionale a tale esigenza lo strumento di raggruppamento in congregazioni che, pur nel rispetto dell’autonomia del singolo monastero, garantisse l’indipendenza verso l’esterno e il ripristino della disciplina monastica mediante costituzioni comuni con organi legislativi, i capitoli, e organi esecutivi, i visitatori.

Oggi le questioni si presentano diverse, ma non per questo meno incalzanti. C’è per il mondo monastico, come per gli ordini religiosi in generale, l’esigenza di recuperare una dimensione missionaria in linea con le forme della nuova evangelizzazione, come emerso, con accenti anche critici, all’ultimo sinodo dei vescovi. C’è, soprattutto per i monaci benedettini, l’esigenza di non discostarsi dal mandato dell’autore della Regola sintetizzato nel Christo omnino nihil praeponant, nel non anteporre nulla assolutamente a Cristo, che per loro si sostanzia nella fedeltà alla preghiera liturgica. Già Paolo VI nel 1970, nella confusione dell’aggiornamento conciliare, invitava i monaci ad avere “più preoccupazione di vedere ciò che dovete conservare che ciò che dovete cambiare”.

Spesso le cose, specie in Italia, sono andate in modo diverso da quanto auspicato dal Papa. Anche la riunificazione delle congregazioni benedettine italiane può essere l’occasione di riscoperta di una rinnovata “primitiva osservanza” con il ritorno alle fonti stesse della liturgia e con il latino che in essa dovrebbe rappresentare il segno distintivo della prassi monastica. La domanda se a Cava avessero conservato la liturgia e il canto in latino fu posta da Benedetto XVI all’abate Chianetta in visita ad limina nel 2009. Da allora è stato anche eliminato dal canto del prefazio l’ultima traccia di latino nella messa. E le cose non sembrano diverse in casa sublacense.

C’è da sperare che la riunificazione riscopra anche il senso della tradizione che mai come in questa temperie può costituire una delle forma della nuova evangelizzazione. Non è forse compito di un abate, come dice S. Benedetto, “far sgorgare sempre cose nuove e antiche” dalla dimensione contemplativa che è propria del monachesimo? Su questa antica sfida si gioca il senso anche della ricomposizione di una separazione più che secolare.

Nicola Russomando

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Redazione Eolopress

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