Alle sette Piazza della Vittoria era già in fermento: stavano per arrivare i due cortei organizzati, uno dalle sigle sindacali e l’altro dai metalmeccanici. C’è da difendere i posti di lavoro, più di ventimila tra indotto e diretto delle storiche acciaierie, oggi impantanate per la solita confusione tra poteri ed organi dello stato: la politica, il sindacato, le amministrazioni, gli imprenditori e, soprattutto, la magistratura. E c’è (ci sarebbe) da contemperare quei diritti con quelli alla salute e all’ambiente: i fatti, molto italiani, sono ben noti.
La mobilitazione ha interessato non soltanto la città jonica ma anche Genova e Mestre, con operai mobilitati per la stessa causa: quella tarantina.
La sera precedente nel rione Tamburi, limitrofo agli impianti e, pertanto, più esposto, c’è stata una fiaccolata seguita da una veglia di preghiera promossa dall’arcivescovo Filippo Santoro.
Intorno alle 8,30 i due cortei partiti separatamente si sono congiunti in piazza: 10mila persone (la solita metà, invece, secondo i dati della questura) accalcate sotto un sole che si faceva sempre più minaccioso. Arrivano i leader nazionali: c’è Luigi Angeletti (Uil), Raffaele Bonanni (Cisl) e Susanna Camuso (Cgil). E c’è Maurizio Landini, coriaceo leader dei metalmeccanici della Fiom-Cgil con i colleghi di categoria delle altre sigle. D’improvviso (?) la faccenda si complica per l’arrivo di un gruppo di Cobas ed esponenti dei centri sociali su un furgoncino dal quale promanavano i tradizionali fumogeni colorati. Scatta la pressione sulla piazza: spintoni, urla, minacce, lancio di uova sul palco, finché lo stesso Landini, in quel momento oratore, è costretto a fermarsi. La manifestazione si blocca. «Voi non ci rappresentate, siete la rovina d’Italia, dovevate venire qui prima che la magistratura si muovesse»: è stato questo il leit motiv della contestazione ai dirigenti sindacali, in gran parte spinta da quanti hanno -teoricamente- messo al primo posto la «tutela della salute e dell’ambiente» rispetto alla necessità di conservare un posto di lavoro per migliaia di famiglie. Solo Angeletti e Bonanni riescono ad intervenire, per la “rossa dei rossi”, Susanna Camusso, non c’è stata la possibilità almeno fino alla ripresa dopo lo stop.
Coniugare il diritto al lavoro con la tutela della salute e dell’ambiente: in sintesi è quel che un po’ tutti hanno urlato in piazza, auspici cui facevano eco analoghi inviti da parte dei tanti politici che hanno dettato fiumi di dichiarazioni alle agenzie: da Bersani a Di Pietro, da Alfano a Fassina a D’Antoni, etc. Nulla di nuovo, pur nella seria e drammatica situazione.
Mentre tutto ciò avveniva sullo Jonio, dall’altra parte, sull’Adriatico, a Bari, si era in fibrillazione per l’incontro istituzionale con il ministro dell’Ambiente, Corrado Clini, il presidente della Regione Vendola, l’ex governatore Fitto, il presidente dell’Ilva e le varie rappresentanze politiche ed istituzionali. E qui inizia il vero balletto: da un lato la Regione, unitamente alla deputazione parlamentare locale, chiede un decreto legge al governo perché il protocollo d’intesa del 26 luglio scorso (oltre 300milioni per la bonifica) produca effetti immediati con forza di legge; dall’altro il ministro Clini, che dice: «Il governo adotterà un provvedimento d’urgenza per fare in modo che il protocollo sia efficacemente operativo. Stiamo valutando se sarà un Dl o un’ordinanza di protezione civile. L’incontro con Ilva è andato molto bene perché l’azienda ha dichiarato di voler adottare un approccio diverso dal passato nei confronti delle amministrazioni e di superare i contenziosi». In pratica né Clini, né Passera (accusato, tra l’altro, da Fassina di non essersi fatto vivo in una vicenda che gli compete da vicino) hanno ancora idea di come superare l’impasse. Bisognerà attendere oggi. Forse.
Vendola, dal suo canto, ha “narrato” così: «Taranto ha fatto molto per l’Italia, l’Italia deve fare qualcosa per Taranto: la Regione ha dovuto surrogare un vuoto normativo, in Italia non c’è una legislazione come la nostra per l’abbattimento delle diossine, del pm10, del benzo(a)pirene, delle polveri sottili». «Noi siamo pronti, dopodomani ci sarà un’udienza al Riesame e diremo quali sono le nostre ragioni, consapevoli di non aver mai infranto la legge» ha detto Bruno Ferrante, presidente dell’Ilva, uscendo dal vertice.
Peppe Rinaldi (dal quotidiano “Libero” del 3 agosto 2012)