In quattro mesi li hanno arrestati e scarcerati due volte: per i pm riciclano soldi sporchi, per i giudici invece non ci sono elementi sufficienti per dirlo e, soprattutto, per metterli in galera. Una volta passi, ma ripetere lo stesso errore renderà vano qualsiasi ulteriore accertamento. Oltre che trasformare in residuale la credibilità del sistema giustizia.
Il 19 marzo scorso le tv, i giornali (Libero compreso) il web e le radio diffusero la conferenza stampa sulla “Maxi operazione contro la camorra”: sarà stata pure «maxi», come molte, ma qualche problemino lo sta creando al di là di altri benemeriti blitz della locale Dda. Francesco, Fedele e Giovanni Ragosta, grossi imprenditori con interessi nel settore alimentare, alberghiero, immobiliare e siderurgico, erano stati rinchiusi in carcere, le loro mogli ai domiciliari, coinvolti i figli, i parenti e diversi presunti prestanome, accanto a 16 giudici delle commissioni tributarie accusati di corruzione. Anche un docente della Federico II fu spedito a Poggioreale, salvo doverlo rimettere fuori dopo poco. Come è successo a professionisti, commercialisti, avvocati e dirigenti coinvolti nel blitz, sputtanati dai media ed oggi liberi sì, ma di leccarsi le ferite. Uno tra essi, Ersilio Giannino, addirittura fu dimenticato in cella nonostante i giudici avessero vergato la sua scarcerazione da circa dieci giorni. I fratelli Ragosta venivano di volta in volta liberati man mano che il Riesame esaminava le posizioni: prima Francesco, poi Giovanni, più o meno lo stesso giorno della scarcerazione dell’ad della “Lazzaroni spa”, RaffaeleEsposito e, infine, Fedele, il più giovane dei tre.
Siamo ad aprile e il Riesame, dopo aver già scarcerato Francesco ed altri, cancella le accuse nei suoi confronti: nessun inquinamento mafioso delle attività. La procura accusa il colpo, durissimo, non foss’altro per la notorietà degli indagati e per il clamore dato al blitz. Ma cosa contestano gli inquirenti? Di essere diventati troppo ricchi in poco tempo (sono pochi 20 anni?) e solo grazie ai soldi che il braccio economico del clan Fabbrocino, Franco Ambrosio, ergastolano rinchiuso ad Opera, aveva riversato nelle loro società. Accuse gravi che, se dimostrate, dovrebbero tenerli in carcere a lungo. E sarebbe anche giusto. Il punto è questo però: assemblando le dichiarazioni dei pentiti, spesso sulla base di notizie apprese de relato, gli indizi acquisiti (oltre al riciclaggio c’è l’immancabile concorso esterno in associazione mafiosa) non erano sufficienti per arrestarli, troppo labili, ne servivano di più concreti. Arriviamo al 12 luglio: la Dda rilancia e li arresta ancora. Stesse imputazioni. A Francesco, addirittura il giorno prima delle manette, era stata restituita parte dei beni sequestrati. Tutti in cella di nuovo. Fino a venerdì scorso: il Riesame libera i Ragosta sostenendo le stesse cose di prima. Ci sarebbe pure una specie di giallo legato ad un vizio formale perché agli atti mancavano gli interrogatori degli indagati e, specie quando un uomo è in cella, queste cose diventano fondamentali.
Insomma, un ping pong che sta mettendo a dura prova circa mille famiglie: tanti sono i dipendenti del gruppo distribuiti nei vari ambiti, tutti col fiato sospeso perché le imprese sono state affidate a custodi giudiziari. Anche su questo versante, pare, le cose non starebbero andando per il verso giusto a causa di alcune «stranezze» emerse nella gestione commissariale.
Lavoratori a rischio, investimenti e progetti bloccati, centinaia di milioni di euro di fatturato appesi alla tecnica e alla scienza giuridiche di inquirenti che, secondo i loro colleghi, non sono state sufficienti a giustificare alcunché.
Sarà per questo che uno degli avvocati, il penalista Mario Papa, parla di “persecuzione giudiziaria”. Inutile dire che la notizia del sostanziale flop non ha trovato analogo spazio dell’annuncio. Come, del resto, non lo troverà nei ragionamenti atrabiliari di Saviano che, in tv da Fazio e su Repubblica di recente, ha informato che Lazzaroni e Amaretti di Saronno sono affare di camorra. E la macchina del fango è sempre quella altrui.
Peppe Rinaldi (dal quotidiano “Libero” del 31 luglio 2012)